Archive | March, 2013

Fotografia artistica e…non

30 Mar

Una “vexata quaestio” in campo fotografico è la distinzione tra fotografia artistica e fotografia documentale. E’ un campo sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro e milioni di parole, spesso in discussioni lunghe quanto sterili.

In cuor suo ogni fotografo ambisce a veder considerata la propria foto come un’opera artistica, anche quando produce una foto per un catalogo o deve riprendere gli esiti di un incidente stradale.

Posto che in fotografia non è la cosa (res), ovvero il soggetto ripreso che conferisce valore all’immagine ( ma va da sé che ciò si estende a tutte le arti figurative) bensì la sua rappresentazione, resta da capire se il valore di questa rappresentazione può essere ricompreso nel modus operandi (tecnica) o nella presentazione formale (potremmo osare definirlo stilema) oppure in tutte e due gli aspetti.

Saggezza vuole che, prima di discutere di una qualsiasi cosa, si definiscano gli ambiti e si metta a fattor comune la semantica utilizzata, al fine di evitare che una parola assuma un significato per colui che parla ed un altro, del tutto diverso, per colui che ascolta.

Il vocabolo “arte”, secondo il vocabolario etimologico della lingua italiana, prima ancora che dal latino “ars, artis” discende dalla radice ariana AR che, come nel sanscrito RNOTI, aveva il senso di indicare il movimento, andare verso qualcosa o qualcuno. Tutta una serie di etimi si rifanno a questa radice, citiamo ARM (braccio in inglese), ARTO, ARME, ARMONIA, perfino ARARE. Sostanzialmente identifica cosa ordinata al suo fine, attività applicata ai bisogni e alle comodità della vita. L’enciclopedia Treccani dedica due fittissime pagine alla parola arte, definendola in principio l’insieme delle regole ed esperienze conoscitive e tecniche per svolgere un’attività umana.  Seneca diceva “Artes serviunt vitae, le arti servono la vita”.

Sono ricomprese nell’arte sia le attività che evidenziano sia l’abilità manuale dell’uomo (l’artigianato ad esempio) che quella intellettuale (la poesia); quest’ultima ricompresa nelle arti liberali. In campo estetico la parola arte si adopera  per contrassegnare la pittura, la scultura, la musica, la poesia, finendo poi – con l’uso pratico – col classificare le produzioni figurative, tra cui, estensivamente, possiamo inserire la fotografia.

Quel che qui ci preme dire, dopo la necessaria premessa, è che arte ricomprende anche – cito testualmente la Treccani – “l’insieme dei fattori tecnici, formali e culturali”.  E’ artistica quindi l’interpretazione scenica di un attore o un musicista (da qui l’espressione “figlio d’arte”), così come lo è in campo militare l’applicazione  di strategia e tattica (si parla infatti di Arte militare),  come lo è un manufatto edilizio (nei contratti si cita sempre l’espressione “fatto a regola d’arte”). Chiudiamo questo non breve preambolo, spero utile, ricordando che esiste un modo di dire molto eloquente: dissimulare ad arte.

Abbiamo quindi capito che il termine artistico assume un significato dietro il quale si racchiudono varie accezioni, e che – non va sottovalutato – è frutto di cognizioni culturali contingenti. Faccio solo un esempio: Van Gogh fu riconosciuto sommo artista solo dopo la sua morte. E’ storia vera il fatto che molte sue opere furono usate per accendere i caminetti. Perfino sua madre, ma non fu l’unica, regalò ai rigattieri quanto il figlio aveva lasciato nella stanza per  andarsene in Provenza. Oggi un disegno di Van Gogh vale qualche milione di euro, poco più di cento anni fa (Van Gogh nacque nel 1853 e morì nel 1890) non era ritenuto superiore al costo di un fiammifero. La sua visione creativa indipendente dai canoni vigenti non fu compresa. Non era ritenuto un artista, ma un eccentrico che si credeva artista.

Torniamo alla nostra fotografia e riprendiamo alla larga il tema vedendo di arrivarci per comparazione.

Se un cuoco prepara un piatto classico, ad esempio le penne al pomodoro, attendendosi alla ricetta tradizionale e lo serve normalmente non fa altro che restare negli standard. E lo standard non è oggi ritenuto artistico (ancorché etimologicamente potrebbe esserlo), proprio perché è un qualcosa di assolutamente normale.  Se il cuoco, invece,  introducesse una nuova tecnica preparatoria – anche aiutandosi con ingredienti segreti – si porterebbe su un piano artistico. Stupirà i commensali perché, pur apparentemente simile , il gusto risulterà inatteso e del tutto nuovo. Se il cuoco presentasse invece il prodotto tradizionale guarnendolo in modo mirabile, su un piatto decorato, lascerebbe altresì meravigliati i commensali che, pur riscontrando nessuna diversità nel gusto, si troverebbero ad apprezzarlo maggiormente non fosse altro per la sua presentazione. Il cuoco nel secondo caso ha un po’ imbrogliato le carte ma si è fatto apprezzare egualmente. Ha agito – come suole dirsi – “ad arte”.

L’esempio fa capire come ciò che lascia ammirati e fa considerare artistico un oggetto si fonda sì sulla tecnica impiegata per produrlo ma anche sulla sua veste formale.

Ciò vale anche per le fotografie? A mio parere sì.

Fotografia artistica a mio modesto parere è (estremizzando) anche una cartolina eseguita “ad arte” ovvero con perizia, e la riprova sta nel fatto che, ad esempio, i ritratti eseguiti parecchi decenni anni fa dai primi fotografi (a quel tempo non esisteva la carta d’identità) e senza bisogno di risalire  a David Octavius Hill hanno un mercato e vengono apprezzati e studiati per capirne le tecniche di ripresa e di illuminazione.

Non mi scandalizza affatto pensare che l’arte abbia anche una funzione pratica. Etimologicamente ciò è vero, ma lo è ( a mio parere) anche sostanzialmente. Non è arte solo tutto ciò che che va verso il simbolismo astratto o il formalismo originale. Coesistono entrambi gli aspetti.

La fotografia ha trasformato – soprattutto nel secolo scorso – il concetto di cultura visiva. Nata come tecnologia su cui si sono sviluppati settori legati all’immagine quali la pubblicità, il turismo, l’informazione, la rappresentazione realistica di luoghi e persone ha finito con l’assumere dignità propria. Ha aperto una strada fino ad allora sconosciuta, ha preparato l’avvento dell’arte cinematografica (che non ha finito con l’uccidere il teatro, così come la televisione non ha decretato la scomparsa della radio), ha liberato la pittura della raffigurazione della realtà permettendole di esplorare nuove strade.

La fotografia muove emette i suoi primi vagiti tra il 1826 ed il 1830 con Niépce e Daguerre e non è quindi un caso che le correnti pittoriche dell’impressionismo (data di nascita 1863 con Monet, la colazione sull’erba) e successivamente l’espressionismo di Matisse e Munch dei primi del ‘900 (benché precorso da Van Gogh e Gauguin sul finire dell’800)  si siano sviluppate proprio nei decenni in cui la fotografia si diffondeva. Non aveva probabilmente più senso dipingere la realtà come la si vedeva, per quello bastava una fotografia, ma emergeva il bisogno di interpretarla. Va anche detto che la contaminazione tra pittura e fotografia fu fortissima nei primi anni ed è facilmente riscontrabile nelle immagini, tant’è che la fotografia, nel periodo che va dalla seconda metà del’l’800 ai primi del ‘900, è contrassegnata dal pittorialismo ed assume, nella classificazione storico-artistica, proprio questa denominazione. Definirei iconografica in tal senso la foto della famosa attrice di teatro,  Sarah Bernhardt scattata nel 1865 da Nadar. Molti pittori erano fotografi e viceversa.

Un primo valore artistico, nella fotografia, è conferito, in primo luogo, dal taglio, cioè dall’inquadratura.  Nella ritrattistica penso alla straordinaria fotografia di Igor Strawinsky ripreso da Arnold Newman (1946) o al ritratto di Picasso con cappello e bavero rialzato eseguito da Irving Penn ( 1957). Ma, mi chiedo retoricamente, sono forse meno artistici i ritratti di August Sander scattati negli anni ‘20? I soggetti non evidenziano le studiatissime posture di Man Ray, Irving Penn, Cecil Beaton o Richard Avedon,  né le originali inquadrature di David Seymur, o il pittorialismo di Edward Steichen a lui coevo, oppure il gioco di luci dell’armeno Yousuf Karsh la cui foto più famosa resta il ritratto di Churchill, né la trasgressività di Helmuth Newton o Robert Mapplethorpe (a proposito di quest’ultimo basterebbe rifarsi alla foto del nudo di busto maschile colto di profilo con il relativo attributo reso in modo evidente ai limiti con la pornografia che – di fatto – non c’è).

Sono forse meno artistiche le crude immagini di Salgado, reporter attento e sensibile alle tragedie degli ultimi della terra, fotografie che io immagino possano figurare benissimo nelle tavole della Divina Commedia a fianco dei disegni di Gustav Doré? Indubbiamente no, così come non sono meno artistiche  quelle di Dorothea Lange, Werner Bischof o Lewis W.Hine. Nel loro caso si tratta di riprese tutte svolte “on the road”, senza l’ausilio delle luci presenti negli studi fotografici. Immagini “rubate”, istantanee in cui la forza risiede nella elevatissima sensibilità che coniuga prontezza di riflessi e eccelso senso dell’inquadratura. Per dirla alla Henri Cartier-Bresson, aedo della fotografia di reportage e massimo esponente con Robert Doisneau della scuola documentativa francese avviata da Jean-Eugène-Auguste Atget, esse hanno messo sullo stesso asse “mirino, occhio e cuore”.

Bella forza, dirà a questo punto qualcuno, stai citando solo mostri sacri della fotografia. Per ribattere citerò Munem Wasif (Carneade, chi era costui?), uno straordinario e giovanissimo (1983) fotografo del Bangladesh, che ha scattato fotografie che non sfigurerebbero al cospetto di quelle di Salgado o Steve Mc Curry. Ha vinto nel 2009 il Prix Pictet che è il massimo award nel campo della fotografia ambientale.

Che cos’hanno dunque di artistico tutte queste immagini: il fatto di esserlo già di per sé oppure in quanto prodotte da riconosciuti maestri della fotografia? Se si accetta per buona quest’ultima versione il discorso finisce qui. C’è da chiedersi se una foto del tutto simile scattata dal geometra Luigi Maria Tirasassi durante le ferie (sto inventando un nome sperando che non esista davvero) avrebbe lo stesso valore.  Ovvero se una boiata (ammesso che l’abbia fatta, ma sono quasi certo di sì perché “errare humanum est”) di Doisneau sarebbe considerata egualmente una foto mirabile.

Se per arte fotografica accettiamo il principio, esposto in premessa, che essa risponde “all’insieme dei fattori tecnici, formali e culturali”,  sia la foto del geometra Tirasassi che quella di Doisneau sono egualmente artistiche.  Altra cosa può essere il fatto che il nostro geometra abbia scattato, per caso, la foto della sua vita mentre Doisneau vanta, dalla sua, una costanza di risultati di altissimo livello nonché il nostro geometra sia un perfetto sconosciuto, mentre il secondo sia un affermato maestro dell’obiettivo.

Il bello degli scacchi – che qualcuno ha definito essere qualcosa che sta sospesa tra arte e scienza e in cui mi diletto ad un discreto livello – è proprio il fatto che una partita o uno studio anche di un giocatore poco noto, ma meritevole “intrinsecamente” di analisi e ammirazione, finisce nella letteratura a fianco delle opere dei Grandi Maestri. A chi si intende di scacchi basterebbe citare, uno per tutti, la posizione di Saavedra, che era un parroco (sic!)

Finora ci siamo limitati alla ripresa fotografica della figura umana– soprattutto ritrattistica in senso stretto – sulla quale è certamente più facile  dissertare.

Nella fotografia di paesaggio da studiare sarebbero le opere di Ansel Adams. La sua caratura artistica è fuori discussione, ma a renderlo famoso e universalmente considerato sommo maestro fu l’introduzione del sistema zonale quale mezzo tecnico per conferire una ampia gamma tonale alle immagini.  Adams – sotto questo aspetto – rappresenta il classico maestro di bottega, l’artigiano paziente e sapiente che mette a punto una tecnica sopraffina per dare maggiore qualità alla sua produzione e distinguerla da quella di altri concorrenti. Tornando all’esempio soprariportato del cuoco ( non v’è dileggio o sottostima in questo ricorso analogico), è riuscito a servire la classica pastasciutta in un modo formale talmente elegante e innovativo da farla sembrare tutt’altra cosa.

Passiamo ad un’altra stanza e consideriamo le foto di natura morta. Edward Weston ha fatto cose mirabili in questo campo. Ha raffigurato elevandole ad oggetti d’arte – con finezza di dettaglio degna di un pittore fiammingo –  banali foglie di cavolo, peperoni e conchiglie. Una tecnica purissima a servizio dell’idea. Incidentalmente aggiungiamo che di Weston sarebbero anche da ammirare i magnifici nudi.

Chiudiamo con il genere più prosaico: quello che si occupa di documentazione tecnica o ambientale. Fotografie – ad esempio- come quelle scattate all’interno di capannoni industriali o laboratori allo scopo di raccontare che cosa vi si produce e come lo si fa. Bene o male è un settore dal quale, per soldi o per amore, sono passati molti fotografi anche famosi che poi si sono dedicati ad altri generi. Su di esso ci vivono i fotografi industriali. La domanda è: anche qui si può parlare di fotografia artistica e dove si trova il limite che marca il confine con quello della fotografia destinata ad un catalogo? Sempre che si escluda a priori che le foto destinate ad un catalogo possano essere artistiche.

Per alcuni è artistica una fotografia solo se realizzata con particolari giochi di luce e riflessi, oppure con un mosso che renda l’idea di un processo in corso, o una prospettiva esagerata da un grandangolo (sto facendo solo alcuni scarni esempi). Di fatto questa frammentazione è limitativa. Potrebbe  anche non essere ritenuta artistica la foto di un bullone ( come quella di un peperone ), ma la tecnica con cui lo si riprende ne cambia il valore raffigurativo. Ed è su questo aspetto che bisognerebbe realmente soffermarsi.

Esiste una tecnica artistica in fotografia e come si declina?

Mi farò aiutare da un brevissimo quanto illuminante saggio scritto da Flavio Cairoli, col suo stile lineare e comprensibile, dal titolo “Le tre vie della pittura”, saggio che ho trovato per molti versi utile per capire alcune dinamiche che trovano applicazione fotografica. In particolare, nel capitolo dedicato alla luce nella pittura (la parola luce è già sinonimo di fotografia) ad un certo punto, pagg.26 e 27, l’autore si sofferma sul Canaletto con l’immagine del celebre quadro “Il Tamigi verso il ponte di Westminster” che il pittore ritrasse con l’ausilio del mezzo tecnico della camera ottica, lontana antenata di quella che poi diventerà la fotocamera una volta scoperto, grazie a Niépce, nella seconda decade dell’ottocento il modo di fissare le immagini su un supporto sensibile.

Commentando il fatto che il modo di lavorare con luce diventa con Canaletto “catturare, definire, azzannare il visibile”, Cairoli sposta l’attenzione su Bernardo Bellotto (nipote del Canaletto) di cui propone il quadro del “Palazzo dei Giureconsulti “ conservato al Castello Sforzesco di Milano. Un quadro che – a guardarlo – non si capisce se sia una fotografia o un dipinto, tanto sono precisi e definiti i dettagli.  Belotto, scrive l’autore, aggiunge una verità fisica –  che suo zio non vedeva – nella materia degli edifici, nel camino sgretolato, nel selciato. Verità di materia, di ombre, d’atmosfere. Due artisti che hanno – in modo crescente – interpretano la pittura come raffigurazione estremamente realistica, lavorando con una precisione maniacale. Ma ciò non li fa più artisti di Renoir.

La tecnica è quindi relativa ad una scuola o a un autore. L’averla introdotta e perseguita rappresenta un valore artistico. C’è da chiedersi se un copiatore di quadri è a sua volta artista. Non crea o persegue tecniche particolari, copia soltanto. A suo modo anch’egli lo è . Per copiare fedelmente occorre perizia e la perizia è comunque un elemento connesso al concetto di arte. Ha un valore inferiore se priva di autentica genuinità ma sempre di arte si tratta. Tant’è che se al Louvre, per burla, fossimo ammessi davanti ad una copia fedele della Gioconda, ignorandone la sostituzione, ci emozioneremmo egualmente come se fossimo davanti all’originale.

Ma in fotografia il clone è la regola, non l’eccezione. La riprova sono i pullman per turisti. Quando si vedono scendere cinquanta turisti armati di fotocamera davanti al Colosseo, c’è da scommettere che almeno quaranta di essi porteranno a casa le stesse identiche immagini. Questo riferimento ci conduce al fatto che fotografi diversi,  messi di fronte allo stesso soggetto (esempio un edificio) e con a disposizione i medesimi mezzi tecnici di ripresa e illuminazione , non si distinguerebbero nei risultati se non per l’impiego della tecnica impiegata e nell’inquadratura. Osservando le foto si noterà lo stile diverso e un taglio diverso. Qualcuno emergerà per caratterizzazione e personalità, qualcun altro di meno.

Ecco che siamo arrivati finalmente alla conclusione di questa lunga chiacchierata. La foto artistica non è definibile con parametri matematici. Non riguarda solo la tecnica o solo la raffigurazione. E’  la risultante armonica di più elementi: padronanza della tecnica e sapiente uso delle luci(perizia), senso dell’inquadratura e tempismo (vocazione), originalità espressiva (stilema). Da qui deriva che anche una foto da catalogo o da cartolina possa avere connotati artistici se questi elementi vi si riscontrano; ma può essere vero anche il contrario. Che fotografie, apparentemente artistiche, risultino algide e prive d’anima, tutto il contrario di quello che l’arte (intesa proprio come l’etimo originale insegna, ovvero andare verso qualcuno) dovrebbe rappresentare.

cesto frutta

Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare. (Félix Nadar)

 

http://www.bensaver.it

© diritti riservati – vietata la pubblicazione non autorizzata (SB)

ZOOM E OTTICHE FISSE

24 Mar

Fantastico continuare a credere che un titolo del genere possa costituire motivo di discussione, almeno ai giorni nostri.

Non ci piove sul fatto che – diversamente da non molti decenni fa – gli zoom attuali, grazie anche all’esclusiva progettazione ottimizzata per le moderne fotocamere digitali ed all’avvento della stabilizzazione, sono diventati più che competitivi. Potremmo definirli, senza tema di esagerare, autentiche macchine da guerra fotografiche. Belli, potenti, versatili, ottimamente rifiniti, precisi.

Partita persa dunque?

A mio parere no e vado – novello Don Chisciotte – a tentare di spezzare una lancia a favore di un settore che oggi è diventata una riserva indiana: quello delle focali fisse.

Comincio a dire che – a pensarci bene – l’unico vero vantaggio dello zoom sta nel fatto che, analogamente alla funzione svolta dall’ascensore rispetto alle scale, evita al fotografo di dover usare i piedi. Si può stare fermi, ancorati in un posto e allungare o allargare il campo senza fatica. Il soggetto può essere inserito in un contesto oppure isolato (avvicinandolo) con un semplice movimento della ghiera che regola la lunghezza focale dello zoom.

Che cosa c’è di più comodo nella vita? Forse solo il telecomando della tivù.

Ogni medaglia ha il suo rovescio e, nella circostanza, io lo ravviso nella pigrizia che incombe sulle nuove generazioni di fotoamatori e si traduce sovente in “zummate” prese a casaccio. La pigrizia peraltro fa ingrassare, non solo in senso fisico ma anche mentale. Produce assuefazione ad un molle incedere della visione creativa, stimola comportamenti in linea col piano inclinato della comodità che indulge alla sonnolenza.

Io amo far le scale a piedi, anche quando i piani sono molti e questa attitudine mi condiziona non poco e, qui,  la invoco a giustificazione.

La focale fissa obbliga necessariamente a ricercare il punto di ripresa più efficace. Non è il soggetto che si allontana o si avvicina regolando un anello dell’obiettivo, ma siamo noi a doverci muovere verso di lui o allontanarci da lui quel tanto che basta perché la composizione dell’immagine risulti di gradimento.

Stimola quindi la ricerca del taglio migliore, carica di adrenalina il fotografo che “avverte” il senso della caccia e lo allena a essere “dentro” la scena e non “fuori” da essa. Suggestioni? Probabile, ma occorre provare per credere.

Peraltro la focale fissa ha l’innegabile vantaggio (in genere) di una luminosità relativa più generosa rispetto agli zoom e almeno questo, tecnicamente parlando, non si discute. Gli zoom di fascia alta hanno una luminosità massima pari a f:2,8, mentre le ottiche fisse di qualità si attestano su luminosità quali f:1,4 , f: 1,8 e, talune più lunghe (penso al Nikon 105mm o 135mm AF-DC, f:2 ).

Si dirà che la stabilizzazione compensa ampiamente questo divario. Per certi versi sì, ma è pagata dal peso, dalla complessità dei gruppi ottici e del numero di lenti impiegato, e da una tangibile differenza difficile a spiegarsi se non si toccano con mano i risultati delle riprese.

Con questo non voglio dire che non io non usi gli zoom o che li detesti. Tutt’altro: li uso, eccome, così come non disdegno l’ascensore quando ho fretta e voglio evitarmi la fatica di far le scale con dei pesi in mano. Ma proprio perché li uso, ogni qualvolta torno alle ottiche fisse per un qualche motivo, mi rendo conto di come quest’ultime siano realmente gratificanti e appaganti sotto tutti i punti di vista. E’ un po’ come tornare ad indossare quel vecchio maglione -comodo,caldo ed avvolgente – dal quale non ci si è mai voluti disfare. Ci si sente a proprio agio e perfino rasserenati.

La qualità fotografica, dal fine dettaglio al contributo dello sfocato (bokeh), restituita da una focale fissa ha un non so che di magico. Evito di addentrarmi nel campo delle ottiche macro (decisamente appannaggio delle ottiche fisse) perché non è bello vincere facile. Vorrei limitarmi alla differenza di risultati prodotti da un 35mm o un 50mm f:1,4 che già a f:2,8 (laddove gli zoom cominciano ad avviarsi) generano fotografie eccellenti. E come non citare il mitico 85mm f:1,4, re dei ritratti, tutt’ora insuperato per la splendida resa del modellato, quasi coroplastico, con un bokeh che lascia senza fiato?

Certo che se si guardano i cataloghi delle case produttrici, l’elenco degli zoom oramai sovrasta numericamente quello delle focali fisse. Ma le case produttrici inseguono le tendenze e le assecondano. La Zeiss (ma anche la Leica M), per citare una casa leader nel campo dell’ottica di qualità, ha mantenuto rigorosamente un catalogo di ottiche fisse per il 35mm (peraltro non AF) che sono di altissima levatura e per palati fini. Obiettivi che hanno un loro peso in tutti i sensi.

Il mio suggerimento è quindi quello di possedere almeno un’ottica a focale fissa, luminosa e di qualità, nel proprio corredo. E provare ad uscire, ogni tanto, solo con essa, lasciando a casa lo zoom e le capienti borse per ospitarlo. Viaggiare leggeri, camminando a lungo con, al collo, la fotocamera su cui è montato un piccolo, discreto e quasi “anonimo” 50mm. Tornare – per qualche ora – ai tempi dei pionieri, sapendo che ogni scatto dovrà essere frutto di attenta e paziente ricerca mentale e – soprattutto –  restituirsi il piacere di scattare una fotografia  prefigurata e pregustata con la pignola attenzione di chi sa di non disporre di altri mezzi se non quello soltanto (Rolleiflex docet).

Non so se ho convinto qualcuno, ma mi sono comunque speso per ricordare a quanti considerano la passione fotografica anche un modo per coltivare una propria vena artistica che l’obiettivo fisso può essere anche sinonimo di bello e di efficace.

 

http://www.bensaver.it

Nk-50mm-1_4

© diritti riservati – vietata la pubblicazione non autorizzata (SB)

Metonimia dell’immagine

13 Mar

Già a leggere il titolo molti storceranno il naso.

Eppure si tratta di un aspetto sul quale, anche se in modo non del tutto cosciente, spesso si scivola quando ci si addentra nell’analisi fotografica.

Per affrontare il tema è necessario tuttavia chiarire alcuni basilari concetti utili a costruire le fondamenta dell’argomento.

Credo sia chiaro a tutti che la fotografia (come la pittura o la scultura) è una forma di linguaggio, sia pure visuale, ed i segni attraverso i quali il fotografo si esprime ( le immagini ) servono a comunicare “qualcosa” a chi le vedrà. L’osservatore non ha a disposizione fonemi (parole) o grafemi (scritti) da ascoltare o leggere per comprendere ciò che gli sta davanti, non è aiutato da un fumetto come nelle strisce di un albo di Tex Willer o Topolino. Deve interpretare basandosi unicamente sulla figura che gli sta davanti.

Credo sia altrettanto chiaro a tutti che le parole di una lingua (qualsiasi lingua) possiedono un loro significato e servono a indicare convenzionalmente qualcosa di esistente. Pur tuttavia le parole non sono ciò a cui esse si riferiscono (il referente), ma il loro significato dipende piuttosto dalla relazione con altre. Pensiamo all’omonimia, ovvero a quelle parole che presentano non solo la medesima forma, ma anche la stessa pronuncia, quali “tasso” (tasso d’interesse ma anche il simpatico mammifero peloso) oppure “pratica” (che definisce i primi passi di una attività in “fare pratica”  ma anche incartamento nella frase “prendo la sua pratica”).

Altro esempio: se io dico la frase “Clarabella è davvero cara”, quel “cara” potrebbe significare sia “amabile” ma anche “costosa” (glissiamo garbatamente sull’implicazione che quel costosa potrebbe assumere). In genere per chiarire meglio il concetto si preferisce dire: ” Clarabella è davvero una cara ragazza” piuttosto che ” Clarabella è una ragazza piuttosto cara”, sgombrando il campo da spiacevoli malintesi.

Si evince, come dichiara Wittgenstein, che il significato di una parola sta nell’uso concreto che se ne fa.

Il significato delle parole è pertanto convenzionale. Da una parte è stabile  perché definisce oggetti o concetti chiari a tutti, dall’altro è mutevole  perché l’ambito d’uso e l’evoluzione nel tempo produce dei cambiamenti di significato.

Introduciamo quindi una differenziazione tra significato denotativo e connotativo.

La denotazione altro non è che l’identificazione del soggetto per quello che realmente è, vale a dire denota qualcosa in modo chiaro, neutro ed oggettivo.

Nella pratica succede che alcune parole si carichino di connotazione, ovvero di valore (evocativo, emotivo) che va oltre la pura informazione.

Faccio un esempio. La parola “casa” può rappresentare le quattro mura ed il tetto che costituiscono una abitazione, ma se la stessa parola viene detta in un diverso contesto, pensiamo ad un emigrante, la parola “casa” può assumere valore di patria, affetti, famiglia, luogo natìo, e così via. Assume cioè una connotazione emotiva e perfino poetica.

Si parla quindi di metonimia (dal greco: scambio di nome) quando una parola si utilizza in senso figurato. Quando si dice ” Orsù, beviamo un bicchiere” risulta chiaro a tutti che non si intende ingerire l’oggetto destinato a contenere liquidi, ma quel “bicchiere” rappresenta in realtà il suo contenuto, benché non esplicitato (vino, birra, liquore).  Se si sente dire ” Il Quirinale ha dichiarato…” appare a tutti chiaro che è il suo principale inquilino ( il Presidente della Repubblica) che ha dichiarato….

La metonimia è una figura retorica ( dal greco: l’arte di parlare bene) che, come le sue sorelle (antitesi, metafora, perifrasi…) serve ad arricchire di efficacia il linguaggio. Rientra negli usi connotativi poc’anzi descritti.

Spero mi sia perdonata questa lunga premessa, a mio avviso utile per agganciare quest’ultimo punto ( la metonimia) all’immagine.

Secondo Roland Barthes ( 1915-1980) saggista e semiologo, che molto scrisse sulla semantica applicata all’immagine ” il senso dato di una foto nasconde il senso costruito”. Detto con parole più semplici, la denotazione di una fotografia (ciò che di essa vediamo) copre la sua connotazione (quello che non cogliamo) ovvero il suo significato culturale.

Andrebbe correttamente aggiunto che la capacità di comprendere le connotazioni dipende dalla cultura di chi osserva l’immagine.

L’atteggiamento mentale di chi analizza una fotografia dovrebbe essere quindi quello di scoprire se l’immagine che ha di fronte non ha  solo uno scopo denotativo (pura e semplice raffigurazione) ma possiede un valore connotativo ( simbolico, evocativo, emotivo…). Occorre quindi far sì che il mero guardare si evolva in un più articolato osservare, per rilevare le eventuali metonimie presenti nell’immagine.

Per tradurre concretamente quanto finora esposto con concetti decisamente teorici intendo avvalermi di una foto da me scattata qualche anno fa sul Cammino di Santiago,.

L’immagine, che può essere osservata in calce a queste righe, raffigura un signore seduto ( forse sarebbe meglio dire semidisteso) su una panchina assolata, panchina sulla quale sono appoggiati anche un grosso zaino e degli indumenti. L’uomo ha tolto gli scarponi dai piedi, sta leggendo un librettino. Sulla destra una stele aiuta a capire la localizzazione dello scatto, una imponente siepe verde fa da fondale all’immagine.

La denotazione finisce qui: uomo, probabilmente stanco, con male ai piedi, legge un libro sulla panchina nella provincia di Palencia, lungo il Cammino di Santiago. I più preparati in geografia aggiungerebbero che ci troviamo sulla meseta centrale spagnola.

La connotazione è ben altra e può essere colta in maggior misura da chi il Cammino di Santiago lo conosce per averlo fatto. L’uomo è solo e rappresenta la solitudine interiore con cui il Cammino si affronta. Pur se fatto in compagnia, nel lungo percorso,  si resta assorti nei propri pensieri. Il cammino è soprattutto interiorità, ricerca di se stesso, rigenerazione. I piedi stanchi, affrancati dagli scarponi, cercano refrigerio esattamente come lo spirito, affrancato da preoccupazioni e occupazioni che appaiono lontane mille miglia. Il bagaglio consiste tutto in uno zaino e poche cose assolutamente utili. Tutto il superfluo è stato lasciato a casa, prima di partire per percorrere centinaia di chilometri a piedi. Non può esserci zavorra nello zaino, ma solo lo stretto necessario, una economia che non è solo fisica ma deve diventare anche mentale. La luce solare, piena e calda rinfranca ed asciuga il sudore. Lo sfondo verde rasserena, mette in stretta simbiosi l’uomo con la natura che lo circonda. La stele, sulla destra della foto,  bilancia come un contrappeso la figura umana. Essa non è soltanto utile a indicare il posizionamento geografico, ma è a sua volta storia e simbolo dell’opera dell’uomo.

E’ quindi una immagine evocativa che va al di là della sua immediata denotazione. Ma per comprenderla a fondo occorre analizzarne le componenti strutturali, il taglio conferito all’immagine e possedere una base formativa (non so fino a che punto definire solo culturale) che richiami quegli elementi concettuali legati al luogo della ripresa. Solo attraverso siffatta elaborazione si comprende la metonimia di questa immagine: il riposo ( in senso lato) dopo la fatica .

Tutto questo non vuol dire che l’immagine debba per forza piacere. Se a molti non dirà assolutamente nulla e meriterà solo un’occhiata veloce e distratta poco male. Non è scopo di queste righe dimostrare la forza di una fotografia. Ma quanto finora scritto serve unicamente a suggerire a chi avrà avuto la pazienza di arrivare fin qui che è buona cosa, così come avviene per le parole, cercare di capire se dietro la parola c’è anche un concetto più articolato. E ciò vale anche per una fotografia. Non è detto che ci sia sempre, ma se c’è è appagante riuscire a coglierlo.

E adesso andiamo a berci un bicchiere.

s4-resized

http://www.bensaver.it

© diritti riservati – vietata la pubblicazione non autorizzata (SB)